L’impatto iniziale con le fotografie di Antonio Gibotta non è stato molto felice per me.
Non avevo mai visto sue immagini e quando, per la prima volta, mi è stato sottoposto un suo reportage in bianco e nero ho trovato quel lavoro troppo perfetto e in una certa misura sterile: le fotografie erano estremamente “compassionevoli”. Mi sembrava fosse un sentimento espresso non in modo naturale; come se non appartenesse, cioè, alle vicenda e ai momenti ripresi; come se si fosse volutamente andati alla ricerca di quel preciso elemento per colpire il pubblico degli spettatori. Intendiamoci, si trattava di fotografie tecnicamente ineccepibili, ma non emergevano i punti che avrebbero dovuto “ferire”. Poi, non convinto, soprattutto per ciò che mi avevano detto di lui, sono andato alla scoperta di Antonio Gibotta e… ho cambiato idea. (D’altronde, come si dice, “la coerenza è degli stupidi”). Il nostro compito, scientificamente e culturalmente inteso, non è scrivere recensioni improntate alla piaggeria, ma dire la verità.
Ebbene, dirò la verità.
Le immagini del lavoro fotografico di cui scriverò in questa sede mi hanno meravigliato, generando, prima nei miei occhi, poi nel mio animo, una vera e propria stupefazione. Sono tra le più belle che abbia mai visto da quando mi occupo di fotografia (sono all’incirca quaranta anni). Quanto al dato tecnico, sul quale non intendo soffermarmi, è evidente la perfezione stilistica e compositiva. Ciò è oggettivo e chiunque può cogliere l’esattezza della mia affermazione. Mi interessa, invece, sottolineare gli aspetti filosofici e narrativi del reportage di Antonio Gibotta. Per narrazione non voglio affatto dire “sterile resoconto”, bensì immaginazione, fantasia, letteratura. Ma entriamo nel vivo della nostra discussione.
Le fotografie sono quelle dei bambini nudi che fanno il bagno in un fiume, o in un lago, non so esattamente, giocando e divertendosi.
Con questo suo reportage, l’autore è riuscito in una impresa tanto ardua quanto improbabile; è riuscito a fotografare ciò che non si vede, ciò che è perennemente invisibile: il sentimento o emozione.
Antonio Gibotta è stato capace di riportare ai nostri occhi la gioia. Pur immergendosi completamente in quei momenti di vita – lo si capisce perfettamente guardando le immagini – lo ha fatto con discrezione, mantenendo una certa distanza che, però, non lo ha allontanato spiritualmente ed emotivamente dai bambini e dai loro giochi.
Potrei proseguire in questa mia analisi facendo ricorso ad artifizi linguistici e letterari, ed evidenziare il solito contrasto che muoverebbe a pietà chiunque dicendo che il fotografo è stato bravo a cogliere il duplice aspetto della felicità e della povertà… sarei banale e disonesto, in quanto mi appellerei al cosiddetto “pietismo di maniera” par acquisire consenso. Quanto di più odioso. Voglio dire, invece, che il nostro reporter è riuscito in qualcosa di molto più difficile : ha colmato le nostre menti di un unico sentimento, di un’unica emozione. Riempire con meno non è facile e non è da tutti. Nel nostro caso, poi, non ci sono inganni fotografici, in quanto l’autore non ha utilizzato grandangoli esasperati riprendendo da vicino i soggetti al fine di “colpire” chi guarda.
Dicevo della distanza poche righe più su, la quale ha consentito di ottenere molteplici risultati. In primo luogo, non è stata violata la verginità del momento di gioia dei bambini, lasciandone perciò inalterata tutta la spontaneità e naturalezza. In secondo luogo, il fotografo, così operando, ha dimostrato ai bimbi, a se stesso e a tutti noi di essere capace di rispettare quella straordinaria realtà altra (è difficilissimo che oggi accada, essendo, anzi, più frequente una vera e propria invasione).
In ultimo, ha composto una scena di grande suggestione artistica, poiché, nelle fotografie, è pure rappresentato, nella sua ampia dimensione, il paesaggio in cui avvengono quei giochi d’acqua. Sentiamo il tratto del surreale, della fiaba.
Vi sono alcuni scatti dei bambini ripresi di spalle.
Ebbene, non solo ciò non abbatte né riduce la fulgida potenza degli stessi, ma ci porta a riflettere: è come se quei bimbi, non il fotografo (o forse anche lui, chissà?), volessero dirci che alla nostra società moderna – fatta di rumore, velocità, tempo perduto, super-architetture – quella gioia è negata. Queste fotografie di Antonio Gibotta sono talmente straordinarie che mi ricordano l’immagine che convinse Cartier-Bresson a diventare fotografo: si tratta della fotografia dei bambini che corrono in acqua, al mare, scattata dal fotografo ungherese Martin Munkácsi.
Eccola a voi.
Confrontatela, ora, con quelle di Antonio Gibotta e ditemi se non ho ragione.
Lettura di Rinaldo Alvisi