Inaugurazione mostra Venerdi’ 14 Ottobre ore 17.00
Ingresso gratuito
di Rinaldo Alvisi e Francesco Lodato, Comitato scientifico del FIOF
Nelle vicende che Michele racconta attraverso il suo USA28 ritroviamo le radici culturali e storiche della fotografia. Si tratta di un reportage umanistico. Un intero percorso attraverso gli Stati Uniti d’America di oggi. È come se in Michele Abriola si fosse reincarnato Krishnamurti, filosofo apolide del secolo scorso, nel pensiero del quale l’asse era rappresentato proprio dall’uomo. E che il nostro giovane fotografo sia spinto dalla cultura di un tempo a realizzare i suoi reportage è confermato anche dalle scelte tecniche compiute. Pellicola. In bianco e nero e a colori. Una macchina e un obbiettivo 28 mm, un grandangolo medio, non esasperato, per restituire a noi l’intero contesto spazio-temporale privo di deformazioni, affinché si sappia realmente, affinché si conosca la verità degli accadimenti. Anche Robert Frank, il primo ad aver dato profondo e ampio respiro editoriale alla fotografia di strada con il suo infinito viaggio per l’America, era mosso dagli stessi intenti. Povertà di strumenti e ricchezza culturale insieme. Ricchezza storica e ricchezza nostra, sostanziata dalla conoscenza di quei luoghi lontani. È una specie di viaggio dantesco attraverso la declinazione di tutte le umanità presenti. E assenti. Perché nelle fotografie di Frank, così come in quelle di Abriola, si percepisce sempre e comunque la presenza di uomini, bambini, donne, anche quando sono fisicamente assenti. La fotografia di Abriola ci stupisce e ci inquieta anche per un altro motivo: l’uso del colore, da una parte, e quello del bianco e nero, dall’altra. Anche chi non ha mai scattato una foto capisce la differenza. Eppure, è come se l’autore si prendesse gioco di questa specie di “sapere comune”. Perché le foto in bianco e nero sembrano aprirsi sul colore, o meglio: attraverso i volti, gli atteggiamenti e le espressioni degli esseri colti nella foto, la nostra immaginazione è spinta a vedere del colore. Attenzione, non stiamo facendo un discorso generale; il bianco e nero è la negazione del colore, non il colore edulcorato. Bene, in queste foto è come se il bianco e nero immaginasse il colore, come se il colore si umiliasse degradandosi a bianco e nero. Immaginazione, umiliazione, degrado non sarebbero, qui, caratteristiche negative, ma rappresentazioni fedeli della situazione dell’essere umano. Abriola è simile a un esploratore che sia finito tra esseri mai visti, alieni o mostri. Eppure il suo è uno sguardo d’amore, dell’amante che canta la bellezza dell’amato. L’esploratore si è innamorato dei suoi alieni, dei suoi mostri. (Mònstrum, dal latino: prodigio, cosa straordinaria, contro natura). Erano gli anni di Cartier-Bresson. Chiamiamolo pure “Maestro” (gli invidiosi accetterranno). Dunque, un notissimo fotografo, amico del Maestro, gli sottopose il suo ultimo lavoro. Bresson disse: “E le persone?”. Quelle immagini erano prive della gente e conseguentemente della vitalità umana. Non c’erano persone. Soltanto muri, strade, macchine, palazzi. Erano fotografie vuote. Per Henry Cartier-Bresson l’uomo era l’elemento dominante e significante di ogni immagine. Annullarne la presenza comportava l’annichilimento del senso fotografico. Se Michele Abriola avesse mostrato il suo reportage all’illuminato fotografo francese avrebbe senza alcun dubbio riscosso la sua approvazione. E il Maestro sarebbe stato felice, consapevole di aver insegnato davvero bene. Nella fotografia umanistica di Abriola abbiamo proprio tutto. Dalla obesità tipica di quelle genti, talmente espansa da essere addirittura escludente – perché non troveremmo spazio per infilarci all’interno della fila al market. L’obeso è sempre solo. Salvo a essere il protagonista di qualche romanzo d’avanguardia di un giovane scrittore in cerca di fama. Fino alla figura forse vuota dell’avvocato impomatato che non può rinunziare al cliché che gli impone il suo ruolo, ma che con una nota di coraggio, perché la sua personalità sia affermata, indossa una svettante cravatta rossa. Una bandiera che non dovrà essere abbassata in quel deserto bianco e asfittico privo di umanità. Ed ecco i testimoni, mai subornati, di tutto ciò :