Come e quando ha capito che la fotografia è il suo mezzo di comunicazione privilegiato?
Avevo 12 anni e sfogliando le pagine della rivista Epoca seguivo con accanimento ed entusiasmo le avventure del reportagista Walter Bonatti, ma che io vedevo come un avventuriero in giro per il mondo. Non mi era chiaro cosa significasse fare il fotografo, per me era semplicemente un modo per girare il mondo e conoscere posti lontani. Come se per conoscere posti nuovi fosse necessario avere una macchina fotografica.
I suoi scatti sono tanto reali da farsi surreali…cosa la ispira, o meglio cosa le preme raccontare con le sue immagini?
Superata questa prima fase di cui vi dicevo, e preso atto che la macchina fotografica è fondamentalmente indispensabile nei viaggi solo se senti l’impellente necessità di raccontare qualcosa che tu hai visto e che vorresti mostrare a chi neppure immagina quello che può esserci lì fuori…ciò che da sempre mi interessa immortalare e raccontare è l’uomo, nella sua complessità e semplicità insieme.
Per un professionista del suo calibro, oggi, il fotogiornalismo che ruolo e che valore può avere nella nostra società, ovvero quella della street journalism, dello scatto facile e alla portata di tutti. Insomma da Epoca a Istangram cosa è cambiato in meglio e in peggio nel mondo del fotogiornalismo?
Street Journalism e scatto convulsivo non possono in nessun modo aver migliorato la qualità delle immagini. Anzi, al contrario, l’eccessiva quantità di immagini e la loro onnipresenza hanno assuefatto i fruitori, sempre più incapaci di riconoscere ed apprezzare una fotografia scattata ad arte, con tecnica e con una storia da raccontare. Diventa sempre più raro riuscire a trovare una foto che non solo sia degna di essere chiamata tale ma che, per lo stesso motivo, nasconda dietro di sé un progetto, un lavoro, una storia. I migliaia di selfie pubblicati sulle piattaforme e sui social network sono lontani anni luce dalle fotografie che negli anni ’60 mi incantavano su Epoca.