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Intervista di Vanessa Cancelliere
Maurizio Galimberti è a tutti gli effetti un artista.
Un fotografo capace di osare; un fotografo perennemente proteso verso il miglioramento, uno di quelli che non ha paura della pittura anzi, attinge ad essa a piene mani convinto che sia il solo modo per fare la vera fotografia d’autore. Ad Orvieto sarà uno dei nostri relatori e, aspettando di conoscerlo di persona, lo abbiamo intervistato così da provare a capire l’artista, si, ma anche l’uomo!
Tema e titolo della nostra Convention è Mutamenti, ovvero come è cambiata e come cambierà la cultura dell’immagine. Ti senti di fare una previsione sul futuro della fotografia d’autore?
I fotografi sono autori solo se guardano alla storia dell’arte, come ho fatto e continuo a fare io stesso. E con storia dell’arte intendo pittori e scultori, si, ma anche registi. Seguire questi professionisti significa intraprendere una strada che nulla ha a che fare con il mercato della fotografia, che oggi è il dictat: la fotografia d’autore è prima di tutto mercato dell’arte e per alimentarlo, i fotografi, non devono limitarsi a scattare ma impegnarsi anche a studiare, confrontarsi e imparare…a mutare!

La tua personale rivoluzione artistica, mi riferisco ai mosaici di Polaroid, come ti è venuta in mente? C’è un aneddoto da cui ricordi di essere stato, come dire, ‘illuminato’?
Tutto è iniziato per gioco; un giorno ho iniziato a smanettare con una Polaroid che altro non era che una scatola con un obiettivo al suo interno, indispensabile per riprodurre la realtà. Poi, gradualmente, ho incominciato prediligere i dettagli del corpo umano: un occhio, le labbra, la fronte…e li ho assemblati tra loro. A dirla tutta Alan Fidler e la Polaroid hanno creduto in me e nel progetto a cui stavo lavorando, era il 1989. Nello stesso anno a Pisa la più grande critica d’arte contemporanea ha colto la novità e l’unicità dei miei ritratti destrutturati. Poi arrivarono le realizzazioni dei mosaici di e per Carlo Ludovico Bragaglia e Mario Giacomelli…insomma, come dire, avevo perfezionato il mio stile.

Guardando le tue realizzazioni ho come visto una sintesi tra vecchio e nuovo, tra analogico e digitale…Mi sbaglio?
Ciò che mi preme assolutamente esprimere con le mie fotografie è la qualità altissima delle stesse. Un principio da cui non so prescindere. Questa qualità la raggiungo grazie ad una sorta di post produzione mentale che faccio ancor prima di scattare: immagino e studio il mio soggetto dal vivo, visualizzo nella mia testa il risultato. Anzi, scatto solo se sono certo che posso realizzare ciò che ho immaginato di realizzare.
Perché continui a scattare solo in Polaroid?
Il bianco-nero, ad esempio, di cui sono un fan sfegatato è originale, per me, solo se è il risultato di uno scatto in Polaroid, con il digitale è tutto troppo artefatto. Però apprezzo i risultati della stampa digitale, scansiono sempre le mie Polaroid.

Le tue realizzazioni sono ricerca e reportage insieme, mi sembra che sei alla continua ricerca del dettaglio verosimile nella realtà. In questa ricerca qual’è il valore aggiunto dato dalla Polaroid?
La Polaroid è capace sempre di darmi l’imperfezione che cerco. Mi ridà l’immagine onirica di ciò che vado ad immortalare, un’atmosfera comunicativa, capace di emozionare l’osservatore, di trasmettere empatia!
New York, Berlino, Londra, Mondrian e Duchamp…tre città e due artisti, in quali aspetti dei tuoi lavori ti hanno contaminato?
Le architetture delle metropoli, assieme alla grafica di Mondrian e al ritmo di Duchamp si sono fuse tra loro e mi permettono di realizzare ciò che realizzo. Si tratta sempre del mix tra le arti di cui ti dicevo all’inizio della nostra chiacchierata.
