Sono nata e vivo sulle sponde del Lago di Como. Non sono una fotografa professionista e non vorrei esserlo: adoro il senso di libertà e leggerezza che mi dà l’essere semplicemente un’esploratrice appassionata e curiosa. Pur privilegiando i generi Reportage e Street Photography, amo sperimentarmi anche in altro: soggetti, locations, tecniche ogni volta diverse, senza alcun cliche’ predeterminato. Propendo per il bianconero, netto e profondo, ma al colore, vivo e vivace, non ho mai rinunciato. A volte colgo l’attimo, a volte aspetto. Non ho sempre la macchina fotografica con me, la dimentico anche per mesi: ho imparato così a “vedere” una fotografia e a rinunciare a scattarla, una sensazione bellissima.
I miei progetti fotografici principali, “anitya”, “fantas(m)ie”, “NEROcomeNEVE”, “marEmosso”, “inOltre”, sono stati esposti, dal 2012 ad oggi, in mostre personali e collettive, sia in Italia che all’estero (Francia e Cina). Nel 2017 “marEmosso” è stata invitata in Francia, alla 22eme Exposition d’Art Contemporain d’Avignon e nel circuito Voies Off a Les Réncontres de la Photographie d’Arles; “anitya” è stata scelta per la rassegna “Fotoreportage, esistenze, resistenze e geografie umane” dell’AFI (Archivio Fotografico Italiano) ed è tra i vincitori del Closer 2018 (Witness Journal).
anitya
l’Impermanenza nei monasteri buddhisti femminili dello Zanskar
Anitya, l’Impermanenza, segno sanscrito dal suono femminile, è uno dei princìpi cardine della dottrina buddhista. E’ la percezione del costante divenire di sé e del mondo, l’abbandono dell’attaccamento al materiale, la consapevolezza dell’essenza transitoria del tutto. “Non c’è niente di costante, tranne il cambiamento“ (Gautama Buddha).
Lo Zanskar, ovvero “terra di rame bianco”, nome che risuona della durezza e della morbidità del paesaggio, è un altopiano d’alta quota, con anse di fiume e vette che si stagliano fin ai 7000 mt del Nun e Kun. Piccola enclave buddhista nel distretto musulmano di Kargil, dello stato indiano Jammu e Kashmir, è remoto, minuto e timido tra i grandi: l’India che lo contiene, la Cina e il Pakistan che lo incorniciano. I confini nazionali sono ancora oggi militarizzati, segnati nella storia dai conflitti indo-pakistani, dalla guerra civile in Kashmir e, ancor prima, dall’annessione di quel piccolo lembo di terra che fu il regno tibetano di Guge.
Culla nei secoli del misticismo buddhista della scuola Vajrayana, è stato meta e patria di asceti ed eremiti, Naropa e Padmasambhava tra altri. Quasi ogni villaggio, e i villaggi zanskari sono solo una manciata, ha un monastero, un gompa, maschile o femminile. A volte entrambi, nettamente separati, anche semplicemente da una crepa rocciosa, che ne corona l’isolamento. In perfetta simbiosi, l’uno, il villaggio, provvede all’esistenza nella dimensione materiale, l’altro, il gompa, in quella spirituale. Un vincolo inscindibile, un nutrimento reciproco, un circolo perenne e virtuoso, sancito da secoli di cultura e tradizione.
Ho viaggiato in solitaria nello Zanskar, di tappa in tappa, di gompa in gompa. Dorje Dzong, Zangla, Karcha, Tungri: monasteri di monache bambine, ragazze, donne, anziane, a rappresentare il volto femminile del buddhismo, nel loro quotidiano vivere, spirituale e materiale. In luoghi riservati e fin remoti, minuscoli e ammaccati dal tempo. Ho vissuto con le monache, in giorni di silenzio e senza una lingua comune percorribile, se non quella di gesti e sguardi. Tra i confini temporali di ogni alba e tramonto, scanditi da riti che si ripetono quasi immutati e immutabili. Dove, sempre e da sempre, la luce è cordone ombelicale, ad un capo il piccolo dentro, all’altro l’immenso fuori.
Ho cercato Anitya, l’Impermanenza, in quel quotidiano vivere. Così, semplicemente. E lei, Anitya, si è lasciata un po’ guardare. Forse anche fotografare.