La povertà di mezzi credo sia lo strumento migliore per realizzare qualunque cosa e per riuscire a ottenere, conseguentemente, una fotografia che soddisfi.
Pochi giorni addietro, su facebook, ho discusso con Vito Finocchiaro, seppur molto brevemente, del libro di Herrigel , “Lo zen e il tiro con l’arco”.
Ho letto quel libro molto tempo fa. L’ho letto più volte. Ha inciso, non poco, sul mio modo di pensare. E di agire.
L’asse centrale del pensiero zen nell’arte del tiro con l’arco è il seguente : non concentrarti sul bersaglio, concentrati su te stesso. Se ti concentri sul bersaglio, non lo colpirai mai !
L’assunto, se ci fermiamo un momento a riflettere, è banale nella misura in cui è esatto, indiscutibilmente vero.
Non potrebbe essere diversamente.
Perché si faccia centro, è indispensabile dimenticare l’oggetto da raggiungere e da attraversare con la freccia. E’ necessario focalizzare la nostra attenzione sul gesto da compiere. Semplice, quanto naturale.
Colpiamo e facciamo centro solo se il “Gesto” è perfetto, privo di incertezze, solido e fluido al contempo. Ma, perché tutto ciò avvenga, è necessario che l’attenzione nostra (siamo noi a scoccare la freccia !) sia ferma sul gesto e non sia distolta.
E allora è ovvio! Concentrandoci su altro che non siano le modalità di esecuzione significa, necessariamente, perdere la concentrazione su ciò che conta davvero : noi stessi.
Sono la conoscenza dell’arco, dello strumento, la sensibilità, il respiro, la coordinazione, la contrazione dei muscoli, la perfezione del movimento che, insieme, consentono di arrivare all’obbiettivo. Di certo non l’obbiettivo, che è lontano, immobile, in attesa, ad aspettare.
E’ tipico dei cinesi, pur essendo altra cultura, affermare, con una certa categoricità, che il pittore di bambù deve osservare la pianta per dieci anni, poi dimenticarla per altri dieci anni, poi, solo quando l’avrà davvero dimenticata, dipingerla. E il capolavoro sarà fatto.
Culture diverse, ma identici modi di pensare.
Anche l’arco va dimenticato. Va conosciuto, saggiato, sperimentato e poi dimenticato. Nulla deve distogliere dal “Gesto”.
L’arco rappresenta la tecnica, la quale deve essere studiata profondamente, ingurgitata, digerita, metabolizzata e poi…dimenticata.
Solo così ci approprieremo dello strumento e della tecnica. Essa riaffiorerà al momento opportuno e ci guiderà, ma istintivamente, senza pensarci. I bambini piccoli, d’altronde, non sanno deglutire e da piccoli ci insegnano a deglutire e a bere, impariamo, ma immediatamente dopo dimentichiamo e, quando beviamo, non ci pensiamo. Ci soffermiamo solo sul gesto che ci permetterà di condurre il bicchiere alle labbra e non sul fatto che nella deglutizione la lingua deve premere in alto contro il palato.
Naturalità : rispondiamo solo a noi stessi.
La povertà di mezzi aiuta in tutto ciò.
Se lo strumento è povero, privo di ogni ricchezza, potremo, noi Uomini, conoscerlo profondamente, senza ostacoli. Ma dopo, quando l’avremo dimenticato, ci sostituiremo al mezzo. Ci sostituiremo allo strumento e diventeremo strumento noi stessi.
Allora, non avendo più il bersaglio a cui pensare, non avendo più lo “strumento altro” a cui pensare, potremo concentrarci liberamente e compiutamente su noi stessi. E, dimentichi di tutto, tranne che di noi stessi, riusciremo. Colpiremo il bersaglio a occhi chiusi !
E tutto ciò con la fotografia che c’entra ?
Ed è qui che il discorso si fa complesso. Ma interessante.
In primo luogo, il libro che ho citato in esordio di questa mia nota scritta, il libro di Herrigel, è stato per l’immenso Henry Cartier-Bresson una sorta di codicillo di regole interiori che si era dato, quasi una guida spirituale, al fine di raggiungere la sua meta, a tiro della sua Leica, sempre pronta a cogliere il “surreale”. Ma all’interno di una perfetta forma estetica, capace sempre di esprimere significati profondi e momenti vivi.
Ebbene, basterebbe questo fatto, la relazione tra quel libro e il grande Maestro, perché lo Zen “c’entri” con la fotografia.
Ma non è tutto.
Analizziamo fino in fondo il tema e addentriamoci nel difficile campo che riguarda la pratica applicazione della teoria, la quale, come sostiene Nietzsche, va sempre adattata ai fatti. Mai il contrario.
Le macchine fotografiche, dunque, sono lo strumento e secondo i paradigmi zen devono essere “povere”.
E allora, per colpire il nostro obbiettivo, è preferibile una Leica senza alcun automatismo ? Meccanica, indipendente dalle batterie, metallo che pesa, metallo che si sente, di cui si apprezza la consistenza, quella pienezza che ti dà un senso di sicurezza. O va comunque bene una moderna digitale? E’ quest’ultima adatta al nostro scopo ?
Inizialmente pensavo, supponevo che una digitale fosse un ostacolo insormontabile a essere dimenticata, proprio a causa dei mille automatismi. Un pensiero stupido, in quanto automatismi e gadget vari si possono tranquillamente trascurare, escludere, far finta che non esistono e quindi dimenticare.
La camera digitale la si può tranquillamente adoperare come se fosse una vecchia camera meccanica, in manuale. Anche se il piacere percepito sarà certamente diverso. Tutto sommato è di plastica ! E anche le forme oggi sono diverse da quelle “dei bei tempi andati” (David Bowie).
Ma torniamo alla domanda posta. E’ utile al nostro scopo ?
Per quella che è la mia brevissima esperienza nel campo digitale (ho 55 anni, ma solo adesso sono nato in digitale), per ciò che vedo e per ciò che la maggior parte dei fotografi mi racconta , dopo aver scattato, siamo indotti, l’attimo successivo, a osservare la fotografia o il gruppo di fotografie sullo schermo. E lo facciamo! Anche solo per controllare che l’esposizione sia corretta.
Ed ecco l’ostacolo ! Il vero limite, lo scudo che ci impedisce di avere, come diceva Bresson, tutti i sensi tesi allo spasimo, unico strumento che ci consenta davvero di scoccare “la” freccia. Tutti i sensi tesi allo spasimo, sulla stessa linea di mira.
Attenzione ! Bresson, parlando di fotografia, citava la “linea di mira”.
Poter osservare la fotografia immediatamente dopo lo scatto, significa poter contare sullo “strumento altro” e non più su noi stessi. Ma non si fanno atti di fede e, come ho già detto, si risponde solo a noi stessi!
E osservare la foto dello scatto realizzato , anche se il momento è oramai consumato, significa rivolgere lo sguardo all“identico” scatto successivo . Di talché guarderemo al bersaglio, contravvenendo alle regole concettuali di cui abbiamo discusso, e la nostra attenzione non sarà più focalizzata su ciò che conta.
La sicurezza che deriverà dallo strumento diverso da noi ci porterà, senza accorgercene, verso la direzione errata. Si annullerà lo spasimo. Non ci sarà più la tensione dei sensi dovuta al “non sapere”.
Posso controllare e la reattività si smorza.
Perché ? Ma è semplice. Perché posso ripetere. Posso ripetere il gesto. La foto non è buona, lo so immediatamente e la ripeto. Nel tentativo di migliorare. Ma non avrò migliorato me stesso.
E’ vero, potrò anche non utilizzare lo schermo, ma la semplice possibilità, il semplice fatto che io lo possa fare rappresenta un condizionamento. Negativo.
Proviamo, proviamo, noi Gente dell’era moderna, a realizzare un lavoro fotografico per strada senza sapere, senza “possibilità”, senza poter contare su altro se non su noi stessi, sulla nostra cultura, sulla nostra capacità di “vedere”. E allora avvertiremo la tensione.
Non so, non so quel che succederà e do tutto me stesso, con tutte le mie forze, con tutte le mie energie, con ogni cura possibile.
Garry Winogrand. Fotografo unico.
Impossibile non conoscerlo e impossibile dimenticarlo ! Lui sì !
Winogrand era altamente prolifico, scattava migliaia di rulli, ma dopo li abbandonava per un anno nel cassetto. Trascorso quel tempo, sviluppava e osservava negativi e provini a contatto.
I tempi dell’attesa, i quali naturalmente militano contro l’immediatezza del digitale, sono un insegnamento fondamentale perché si fotografi.
Winogrand era un uomo straordinario. Ho imparato a conoscerlo attraverso i suoi libri di fotografie, ma soprattutto attraverso le sue testimonianze “parlate” e i suoi interventi presso le Università americane. Era dotato di una semplicità disarmante, era privo di qualunque superarchitettura mentale, dotato di una sensibilità fuori del comune, onesto fino in fondo, senza riserve.
Winogrand. Le sue parole, più delle sue fotografie, mi hanno aperto nuovi orizzonti mentali e, soprattutto, mi hanno reso libero dalla ossessione di Henry Cartier-Bresson. Per me era una vera ossessione. Non vivevo senza Bresson ! E come tutte le ossessioni, stupide in quanto tali, rappresentava una feroce limitazione, nonostante l’immensa e irraggiungibile grandezza di Bresson.
Allora, che fare in pratica ?
Studiare le tecnica. Profondamente. Imparare ogni regola, ogni paradigma, conoscere ogni indicazione, la prassi e il dato scientifico. Imparare a valutare la luce. Appropriarsene completamente e, immediatamente dopo, dimenticarla. Sarà parte di noi.
Studiare l’arte. Studiare la Storia dell’arte. Studiare Caravaggio, Van Eyck, tutti. Conoscere Balla, Afro. Tutti. Poi, ancora una volta, dimenticare. Ormai saranno nostri. Ma anche la musica, che con la fotografia si sposa perfettamente. Ma anche altro. Bisogna essere spiriti liberi.
Si acquista spessore e non si dimagrisce più.
Il “tutto” emergerà inconsapevolmente allo scatto, nel momento in cui si pigia il pulsante.
Ma, ricordiamo, anche lo strumento deve essere dimenticato. E dimentichiamolo, finalmente !
Andiamo per strada, privi di ogni automatismo, privi di ogni “possibilità”, e scattiamo fotografie. Fotografiamo senza sapere. Alleniamoci, alleniamoci secondo questi schemi concettuali e applicativi. Facciamo esercizio. Impariamo. Viviamo.
L’atleta che corre scalzo sullo sterrato, quando avrà scarpe comode e sarà su una pista elastica e moderna, non correrà, forse, più veloce, molto più veloce e con più soddisfazione ? E che soddisfazione !
Per strada, senza apparenti ricordi, ma dotati del nostro spessore, l’occhio vede, non sa di vedere, ma vede. E ci potremo concentrare su noi stessi, sul gesto e non sul bersaglio.
Ma qual è il bersaglio che va dimenticato in fotografia ?
E’ facile e pressoché automatico ritenere che il bersaglio sia la realtà esteriore che sono in procinto di fissare sul fotogramma. Ma come posso fotografare il soggetto senza guardarlo, senza osservarlo, senza vederlo ?
La risposta è semplice. Il bersaglio da dimenticare in fotografia NON è il soggetto che fotograferò. Non è lui!
Il bersaglio finale, l’agognata meta, il centro da fare è, in fotografia, la fotografia stessa. L’immagine che vado a creare. Il momento ultimo che sarà fermo, ma dovrà essere vivo, all’interno della cornice, del frame.
E’ la fotografia che realizzerò che devo dimenticare, non l’uomo che si para di fronte a me e che rappresenterò attraverso la mia Arte. Arte senza Arte (per chi conosce il libro su Bresson).
Quindi, senza avere in mente la fotografia così come sarà e dovrà essere, potrò ampiamente e naturalmente concentrarmi sulla realtà circostante, immergermi in essa, far parte di essa, diventare un tutto uno con essa e quando mi concentrerò su di essa sarò, in conclusione, concentrato su me stesso, come vuole il pensiero Zen.
L’istinto, lo spessore interiore, la “percezione sentita”, la coincidenza surreale mi diranno, come un vero e proprio automatismo, ma naturale automatismo, quando scattare. E riuscirò ! Certamente riuscirò!
La fotografia possiede e proietta un duplice riflesso. Il riflesso della vita esteriore, che sono impegnato a riprendere con la mia fotocamera, e il riflesso della vita interiore, del mio bagaglio culturale, il mio occhio interiore, che quella realtà esteriore filtra.
Nel momento in cui le due realtà coincideranno oggettivamente (avrebbe detto André Breton), vi sarà la percezione, il “sentire” diromperà e io realizzerò “la” fotografia.
E’ complesso. Ma solo perché siamo privi di allenamento. Alleniamoci e, come tutto ciò che è profondamente e con impegno praticato, diventerà NON facile, diventerà NATURALE.
Studiamo e andiamo per strada a fotografare ciechi e dimentichi. Senza automatismi e visori digitali. Una fotocamera meccanica qualunque. Nikon, Leica, Praktica. Una Qualunque.
L’allenamento produrrà certamente i suoi effetti.
Ma allora il digitale dovrà essere abbandonato ? Accantonato ? In un cassetto ?
Niente affatto. Il digitale è uno strumento potente, utilissimo se usato correttamente, e per alcuni, forse per molti, una porta che apre al futuro.
Dopo esserci allenati a lungo e proficuamente, dopo aver imparato, dopo aver dimenticato, raggiunta la consapevolezza di noi stessi, potremo riappropriarci della fotocamera moderna, della fotocamera di oggi. Per fotografare La realtà che conterrà anche la nostra personalità in tutte le sue sfumature. In tutte le tonalità di grigio, dal bianco e nero, in cui si declina il nostro Io e la nostra Sensibilità.
E’ vero, i vecchi fotografi sono avvantaggiati, in quanto il loro retaggio mentale e culturale, la loro forma intellettuale non cambia a seconda della macchina che hanno in mano, perché è come se la macchina non la avessero. Scattano fotografie con la mente e con il cuore.
Ma i ragazzi, i giovani, gli spiriti inquieti, che dovrebbero fare la rivoluzione, “rivoltare il mondo”, hanno un vantaggio ancora più grande. Hanno il Domani.
Ragazzi, siate “aristocraticamente” colti e il Domani vi sorriderà.
E ricordiamo anche che l’imperfezione, che è il segno distintivo più proprio dell’Uomo e della sua “impermanenza” (come piace dire ai buddhisti), rende la fotografia vera e viva.
Questa è la ragione principe per la quale non mi piacciono le immagini digitali, Sono perfette, quindi irreali, sembrano fatte di plastica, manichini a colori privi di vita.
L’immagine analogica, grazie alle sue imperfezioni, ci porta dentro. “Tocchiamo con mano”.
Ma questo è un altro discorso. Magari in un momento futuro.
Un’ultima nota.
Intendo ringraziare e ringrazio Roberto Colacioppo e Vito Finocchiaro, perché grazie a loro e alle loro fotografie ho finalmente capito quali sono i miei limiti e così ho compiuto un altro piccolo passo in direzione della consapevolezza di me stesso.
– Rinaldo Alvisi –
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